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Evidence 2019;11(1): e1000192 doi: 10.4470/E1000192
Pubblicato: 28 gennaio 2019
Copyright: © 2019 Galassi et al. Questo è un articolo open-access, distribuito con licenza Creative Commons Attribution, che ne consente l’utilizzo, la distribuzione e la riproduzione su qualsiasi supporto esclusivamente per fini non commerciali, a condizione di riportare sempre autore e citazione originale.
L’epoca in cui viviamo è caratterizzata dal dilagare della pseudoscienza e di teorie fallaci e pericolose in campo biomedico, un’emergenza che impone riflessioni alla classe medica sull’origine di questa deriva e su quali strategie possano essere impiegate per contenere questo fenomeno. In questo articolo, utilizzando tre esempi (vaccinazioni, malattie cardiovascolari, cancro), viene posto l’accento sull’importanza della valorizzazione dello studio della paleopatologia e della medicina darwiniana in ambito medico, quale fondamentale strumento conoscitivo e comunicativo.
La necessità di una medicina darwiniana e l’importanza della storia delle malattie
Il soverchiante progresso teorico e soprattutto tecnologico della medicina nelle sue aree laboratoristica, clinica e chirurgica nel corso degli ultimi 150 anni ha rivoluzionato il mondo, in particolare quello occidentale, permettendo, per la prima volta nella sua storia, ad Homo sapiens sapiens di combattere efficacemente ed in maniera razionale malattie in grado di mettere a repentaglio la fitness riproduttiva e l’esistenza stessa della propria specie. Questo senso di superiorità sulla natura e sulle manifestazioni patologiche tende ad ingenerare una acritica sicumera circa le possibilità terapeutiche oggi disponibili, una baldanzosa convinzione che i drammi del passato siano soltanto memorie sbiadite consegnate ormai da tempo a polverosi volumi di storia e, infine, una semplicistica e goffa banalizzazione del rischio per la salute individuale e collettiva. Ancora più allarmante è la reazione paradossale da parte di considerevoli fasce della società – si badi bene non sempre rappresentate da persone di bassa istruzione o ceto sociale – nei confronti della classe medica e della medicina in generale, coniugata in numerosi gradi di negatività che vanno da uno scetticismo critico ad un conclamato complottismo (1).
Al tramonto del V secolo a.C., i 90 anni di età raggiunti del grande drammaturgo ateniese Sofocle venivano considerati un traguardo straordinario e ancora di più poteva sorprendere l’eccellente grado di conservazione delle sue facoltà cognitive pur ad una tanto veneranda età . Le fonti storiche ci tramandano, infatti, che, accusato dal figlio Iofone di essere affetto da demenza senile durante un processo per questioni di eredità , il vetusto tragediografo facesse sgretolare quell’accusa e lasciasse sbalorditi i giudici recitando versi della sua opera Edipo a Colono (2).
Quella che 2.425 anni or sono poteva sembrare una meta straordinaria per una persona, è oggi una realtà in cui si rispecchia una fetta sempre più consistente della popolazione mondiale, di cui l’11% supera i 60 anni (in Italia gli ultra 65enni ammontano al 20,3%), percentuale destinata ad arrivare nel 2050 al 22% su una popolazione di 9 miliardi (3).
Ridurre la spiegazione di un tale fenomeno al mero miglioramento delle condizioni di vita, lavorative ed igieniche, in particolare nel mondo occidentale, o al progresso tecnologico delle scienze della salute, sarebbe, per quanto corretto, decisamente superficiale. È infatti importante valutare i processi patologici in chiave evoluzionistica, evitando di considerare le malattie come entità fisse ed immutabili. Al pari degli altri esseri viventi, infatti, i processi patologici sono soggetti a continue pressioni darwiniane che ne hanno, in ultima analisi, determinato la forma presente con la quale li conosciamo e fronteggiamo. Come osservato dal grande biologo evoluzionista e saggista britannico Richard Dawkins, i medici dovrebbero essere più “darwiniani†(4).
Lo studio dei trend storici ed evoluzionistici delle malattie è materia della paleopatologia, la branca archeologica della medicina, che, investigando gli esiti dei processi patologici direttamente sugli antichi pazienti (resti scheletrici, mummie) o ricavando informazioni grazie all’analisi delle fonti storiche, archivistiche ed artistiche (analisi paleopatografica), permette alla scienza moderna di gettare luce sull’epifania antica dei processi morbosi (5).
I tre esempi successivi permetteranno di comprendere come un approccio storico-paleopatologico alla materia trattata consentirebbe di evitare gravi errori di calcolo, contribuendo in maniera decisiva ad arginare la prorompente diffusione delle pseudoscienze in campo medico.
Vaccinazioni
Si narra che Napoleone Bonaparte, dinnanzi alla richiesta di rilascio di prigionieri di guerra inglesi, acconsentisse, dal momento che questa gli era stata indirizzata dal grande medico Edward Jenner, che nel 1796 aveva introdotto la vaccinazione antivaiolosa basata sull’innesto del virus del vaiolo bovino (6). La pratica permise per la prima volta nella storia di combattere efficacemente un nemico terribile della salute umana, andando a sostituire la precedente – e ben più pericolosa – forma di immunizzazione, la variolizzazione, introdotta in Europa da Lady Mary Wortley Montagu e basata sull’introduzione a scopo preventivo del virus del vaiolo umano ricavato da pustole di pazienti che sviluppavano una forma clinica meno grave della malattia (7). Come negare qualcosa ad un tale benefattore del genere umano? – si chiedeva Bonaparte. L’introduzione della pratica vaccinale ha rappresentato un punto di svolta nella lotta condotta dal genere umano contro gli agenti patogeni, poiché ha significato un sostanziale cambio di mentalità ed approccio clinico: non si cura più ex post, ossia quando la condizione morbosa si è già instaurata nell’organismo contagiato, bensì si agisce prima che l’organismo entri in contatto con l’agente patogeno e fornendo strumenti di difesa, gli anticorpi, in grado di proteggerlo dall’attacco esterno. In buona sostanza, si sconfigge alla fonte l’agente responsabile della malattia.
A più di 200 anni di distanza, il modello di prevenzione vaccinale introdotto da Jenner, un solido vallo difensivo, se da un lato ha visto la gloriosa sconfitta del vaiolo, dichiarato dall’OMS (WHO) ufficialmente eradicato nel 1980, dall’altro sembra ora vacillare sotto i colpi della pseudoscienza. Il proliferare delle teorie più fallaci e pericolose per la salute dei pazienti ha contribuito alla diffusione di un profondo scetticismo, se non di una vera e propria opposizione alla somministrazione dei vaccini. Tra le varie motivazioni addotte spiccano senz’altro due argomentazioni:
- i vaccini producono effetti avversi per la salute umana;
- i vaccini sono ormai inutili giacché le malattie infettive scompaiono da sole quale naturale conseguenza delle migliorate condizioni igienico-sanitarie.
Non sorprende, pertanto, che in Europa si sia registrata un’epidemia di morbillo, in seguito alla quale si contano nel solo 2017 41.000 casi di cui 37 decessi (8).
Le leggende sulla pericolosità dei vaccini, corroborate dallo studio fraudolento del 1998 da parte del medico britannico Andrew Wakefield, che associava il vaccino trivalente MMR all’autismo, poi ritirato dalla rivista The Lancet e costato la radiazione dell’autore dal registro dei medici del suo paese (9), è ampiamente confutato dai dati AIFA (10) e, in ogni caso, decenni di ricerca scientifica internazionale dimostrano come il rapporto rischio/beneficio sia soverchiamente a favore del beneficio.
Concentrandoci, invece, sulla seconda argomentazione, si comprende facilmente quanto la mancanza di una forma mentis darwiniana possa condurre a sostanziali errori di valutazione. Se per molte malattie il miglioramento delle condizioni igieniche porta ad una riduzione del loro potenziale offensivo, è totalmente priva di fondamento l’idea che ciò basti a far scomparire agenti patogeni, obiettivo raggiungibile solo attraverso l’utilizzo su larga scala dei vaccini. Per di più, vi sono malattie quali la poliomielite che hanno paradossalmente raggiunto una forma epidemica mai vista in precedenza proprio in conseguenza dell’aumentata urbanizzazione (11). Infine, è sbagliato pensare che il potenziale di patogenicità delle malattie rimanga costante nel corso della storia. Un esempio è rappresentato dal virus del vaiolo umano, il quale per lungo spazio di tempo ebbe più o meno la stessa virulenza del morbillo, ma che assunse i tratti di letalità con cui lo troviamo descritto sui libri di storia solo negli ultimi quattro secoli (12). Oggi per molte malattie infettive, quali il morbillo, disponiamo di vaccini efficaci, ma non è detto che queste armi saranno sempre efficaci se i patogeni dovessero mutare.
Malattie cardiovascolari
A torto considerati un “prodotto esclusivo†della contemporaneità , con i suoi ritmi stressanti e le sue diete ipercaloriche, i processi degenerativi a carico del sistema cardiovascolare sono in realtà sempre esistiti, come ha dimostrato l’analisi paleopatologica. I primi studi sulle mummie egizie, corpi appartenuti a membri dell’élite artificialmente imbalsamati, permisero a pionieri della disciplina come Samuel G. Shattock e A. F. Bernard Shaw di dimostrare, solo per citare i casi più celebri, rispettivamente la presenza di aterosclerosi di grado avanzato nell’aorta del Faraone Merenptah (XIX Dinastia) e simili insulti vascolari a carico dell’arteria mesenterica superiore nel cantante Har-Mose (XVIII Dinastia) (13,14).
Quegli studi molto invasivi poterono avvalersi dell’apporto dell’istologia, mentre oggi risultati comparabili possono essere conseguiti avvalendosi di tecniche di diagnostica per immagini non invasive, che permettono di preservare l’integrità di reperti bioarcheologici unici al mondo. Un esempio di utilizzo massiccio di queste metodologie in tempi recenti è lo Horus Study (15), che ha preso in esame un numero elevato di mummie (sia egizie, sia site in altre località ), rimarcando la presenza dell’aterosclerosi nell’antichità e formulando per la prima volta conclusioni epidemiologiche. Più di recente, anche la storia dell’ictus, ai giorni nostri la seconda causa di morte in pazienti sopra i 60 anni di età ed una delle principali cause di invalidità a livello globale, è stata arricchita dalla dimostrazione, non solo speculativa e derivata da descrizioni storiche, della sua esistenza nel passato. Lo studio multidisciplinare condotto sulla mummia del sacerdote riminese don Giovanni Arcangeli, deceduto nel 1751, ha dimostrato come pochi anni prima del decesso fosse già rimasto invalido a causa di un ictus (16). Il riscontro anatomico di una paralisi dell’arto superiore sinistro (in particolare della mano) è stato corroborato dalle seguenti scoperte: i. diminuita densità ossea corticale a livello dell’arto affetto da paralisi evidenziata all’esame TAC; ii. individuazione all’esame TAC di calcificazione a livello della carotide destra, compatibile con diminuito apporto ematico all’emisfero cerebrale responsabile dell’innervazione dell’emisoma controlaterale; iii. ritrovamento negli archivi diocesani di un documento che attesta l’invalidità del sacerdote, alcuni anni prima del decesso, in seguito a colpo apoplettico (“ob morbum apopleticumâ€, ossia “a causa di un ictusâ€) (17).
Questo studio dimostra anche che, combinando fonti storiche e biologiche, è possibile ricostruire efficacemente l’antichità delle malattie, sfatando inappellabilmente il mito della loro presunta modernità (18).
Cancro
Un ragionamento simile può essere applicato alle patologie oncologiche, che sono sempre esistite non solo nella specie umana (e nelle sue forme più ancestrali), ma addirittura in forme di vita che hanno precorso la nostra, quali i dinosauri (19). Il fatto che in passato il cancro fosse meno frequente che ai giorni nostri può essere spiegato, oltre che per la mancanza di casistiche accurate e per le moderne forme di inquinamento e agenti cancerogeni, dalla tipica presentazione delle neoplasie in età più avanzate, oggi – come si sottolineava all’inizio – assai comuni, ma in passato molto più rare, in ragione dell’altissima mortalità da malattie infettive, molte delle quali è oggi possibile curare con terapia antibiotica o prevenire a monte tramite le vaccinazioni. Con la diminuzione della mortalità da queste cause nelle prime decadi di vita, abbiamo effettuato una pressione selettiva positiva nei confronti delle malattie, tra cui il cancro, tipiche dell’età adulta matura e dell’anzianità . Un esempio emblematico è rappresentato dall’osteoma del seno frontale, patologia tumorale ossea benigna, oggi facilmente rilevabile nei pazienti otorinolaringologici sintomatici tramite tecniche di diagnostica per immagini. Per lungo tempo si è pensato che il caso più antico storicamente accertato fosse quello descritto dal portoghese Tomás Rodrigues da Veiga nel XVI secolo (20), fino a quando la paleopatologia ha accertato la presenza di questa condizione in resti umani antichi già a partire dal 100 a.C. nel cranio di un individuo celtico. Ulteriori analisi di resti umani antichi hanno permesso di acclararne l’esistenza nell’Antico Egitto, in una mummia conservata presso il Museo di Etnografia di Neuchâtel (Svizzera) (21). La regione anatomica del seno frontale ha, inoltre, consentito di dimostrare l’effettiva esistenza di un tumore raro nel mondo moderno in questa sede, quale l’osteoma osteoide in un individuo della Sicilia della tarda antichità (V-VI secolo d.C.) (22).
Il cancro ha, quindi, sempre accompagnato la specie umana nel corso della sua storia, in forme molto simili a quelle odierne, pur variando nella sua epidemiologia.
Conclusioni
L’introduzione sempre più assidua di un modello di ragionamento storico-archeologico e darwiniano nella medicina contemporanea può portare la classe medica a sviluppare un approccio più completo ed integrato ai processi patologici, di cruciale importanza per sviluppare sempre più efficaci protocolli di prevenzione e terapia e per contenere la preoccupante affermazione di teorie pseudoscientifiche.