Editoriale
GIMBEnews 2010;1:1-2
Pubblicato: 23 marzo 2010
Copyright: © 2010 Cartabellotta. Questo è un articolo open-access, distribuito con licenza Creative Commons Attribution, che ne consente l’utilizzo, la distribuzione e la riproduzione su qualsiasi supporto esclusivamente per fini non commerciali, a condizione di riportare sempre autore e citazione originale.
Il 3-4 marzo la Federazione delle Associazioni dei Dirigenti Ospedalieri Internisti (FADOI) ha organizzato presso l’Istituto Superiore di Sanità il convegno “La Ricerca Indipendente in Italia. A 5 anni dal decreto sugli studi non-profit”. Aula Pocchiari gremita, organizzazione perfetta, relatori di prim’ordine e audience qualificata “conquistano” l’editoriale di GIMBEnews.
Guido Rasi - direttore generale dell’AIFA - ha rilevato con grande soddisfazione che nel periodo 2000-2008 la ricerca no-profit in Italia è cresciuta dal 17.2% al 40.1% nel 2008, un risultato eclatante anche al confronto con altri paesi europei, dove la media della ricerca no-profit si assesta intorno al 20%. A fronte del consistente incremento della ricerca no-profit emergono due riflessioni su altri dati riportati da Rasi:
- Nel periodo 2004-2008 il 50% delle sperimentazioni no-profit condotte sono studi di fase II che, per definizione, hanno l’obiettivo di valutare la potenziale efficacia dei trattamenti e, nella maggior parte dei casi, sono studi pre-marketing. Considerato che la ricerca farmacologica no-profit dovrebbe prevalentemente coprire le fasi III e IV, perchè una quota così rilevante di risorse viene destinata a una fase della ricerca che dovrebbe essere effettuata dall’industria?
- In vetta alla “hit parade” delle aree cliniche della ricerca no-profit con il 37.7% si trova l’oncologia, sostenuta anche dal 24.4% della ricerca profit. Questo risultato deriva dalla interazione di vari fattori: impatto sociale della ricerca oncologica, elevato livello di competenza dell’oncologia italiana, antineoplastici che si prestano a studiare nuove strategie terapeutiche. Oncologia a parte, un’analisi approfondita delle percentuali di ricerca profit e no-profit condotta nelle diverse aree terapeutiche dimostra che quelle tralasciate dalla ricerca profit non vengono prese in considerazione dalla ricerca no-profit (ad eccezione dell’anestesiologia e della pediatria/neonatologia). In altri termini, la ricerca profit e no-profit finiscono per coprire le stesse aree terapeutiche!
Roberto Gradnik - presidente di Assobiotech - ha posto grande enfasi sugli enormi investimenti (circa 1 miliardo di dollari) che l’industria deve sostenere per ottenere la registrazione di una nuova molecola. Oggi, in realtà , la “quota di salute” migliorabile con la terapia farmacologica si è notevolmente assottigliata. Bisogna considerare, infatti, che gli esiti di salute dipendono da quattro variabili: fattori genetici e ambientali, cultura e condizioni socio-economiche che condizionano stili di vita e compliance e, infine, l’assistenza sanitaria con gli interventi preventivi, diagnostici, terapeutici, riabilitativi e palliativi. Il farmaco è solo uno degli interventi sanitari in grado di modificare gli esiti di salute, e dimostrare che una nuova molecola è superiore a una già presente sul mercato (magari con il brevetto in scadenza) è una strategia sempre più costosa per l’industria. Infatti, in termini statistici, al diminuire del Control Event Rate (incidenza dell’evento nel gruppo di controllo) il numero di pazienti da arruolare in uno studio per dimostrare l’efficacia di un nuovo farmaco è sempre più elevato: ecco la necessità di costosissimi mega-trial per documentare differenze statisticamente significative, spesso poi clinicamente irrilevanti!
Claudio Bordignon - amministratore delegato MolMed - nel suo intervento “Profit vs no-profit, percorsi e obiettivi distinti”, ha sostenuto che, se i percorsi possono essere differenti, gli obiettivi devono essere necessariamente comuni, facendo riferimento in particolare alle sinergie tra Accademia e industria. Tuttavia, come rileva Lo in un recente editoriale sul N Engl J Med, “gli obiettivi di Accademia e industria possono convergere, ma l’equilibrio è molto delicato e i benefici-rischi non sono affatto bilanciati tra i due partner, perchè se l’industria rischia denaro, l’Accademia rischia di sacrificare leadership e credibilità . Inoltre, se “il general manager di una multinazionale ha la responsabilità fiduciaria della compagnia, dei proprietari e degli azionisti per incrementare i profitti, il preside di una facoltà o il direttore di un dipartimento universitario ha la responsabilità di sostenere la mission dell’Accademia”.
Si torna a casa con una indiscutabile certezza: la percezione dei contenuti della ricerca no-profit è negativamente influenzata dai “confini” posti dal decreto, che si limita alla ricerca sperimentale sui farmaci, una quota di tutta la ricerca clinica, ma sicuramente la più redditizia per l’industria! Considerato che GIMBE, nella sua mission istituzionale, annovera l’obiettivo di migliorare qualità metodologica, etica, integrità e valore sociale della ricerca clinica, ecco i nostri desiderata dopo la “vacanza romana”.
Terminologia. Alla dicotomia profit vs no-profit - che catalizza l’attenzione sulla mission di chi finanzia la ricerca - GIMBE preferisce i termini “ricerca sponsorizzata” e “ricerca indipendente”. Peraltro, se la ricerca sponsorizzata (profit) non sempre determina utili per lo sponsor, talora i risultati della ricerca indipendente (no-profit) possono determinare risvolti economici favorevoli per l’industria. Il termine “ricerca spontanea” - più volte ascoltato - dovrebbe essere definitivamente abbandonato.
- Aree di ricerca. Identificare, sulla falsariga del decreto, la ricerca indipendente con quella sui farmaci è estremamente riduttivo, sia perchè viene ignorata la valutazione dell’efficacia di tutti gli interventi sanitari non farmacologici, sia perchè le evidenze scientifiche clinicamente rilevanti riguardano anche l’accuratezza dei test diagnostici, la storia naturale delle malattie e la potenza dei fattori prognostici, la responsabilità eziologica dei fattori di rischio di malattie, tutte aree coperte dalla ricerca osservazionale.
- Definizione delle priorità . Indipendentemente dalla qualità e dalla rilevanza del protocollo di studio, non esiste alcuna modalità strutturata per definire quali priorità finanziare con il denaro pubblico. La rilevanza clinica e sociale della ricerca è proporzionale alle risposte fornite a quesiti rilevanti di salute che dovrebbero riguardare le “aree grigie”, dove le evidenze scientifiche mancano, sono contraddittorie e/o metodologicamente inadeguate. Per raggiungere questo obiettivo la definizione dell’agenda della ricerca dovrebbe coinvolgere tutti i “portatori di interessi”, inclusi i pazienti, il cui contributo è fondamentale per definire sia quali interventi sanitari valutare, sia quali outcome misurare. Partendo da fonti secondarie della letteratura è semplice identificare le aree grigie: revisioni sistematiche non conclusive e/o raccomandazioni cliniche di linee guida molto deboli forniscono un elenco di research questions a cui la ricerca indipendente dovrebbe fornire risposte. Non è un caso che, generalmente, le aree grigie non interessano i farmaci o riguardano la loro efficacia comparativa. Sulla stessa linea di pensiero l’intervento di Gianni Tognoni che ha invocato il passaggio dal percorso “Ricerca --> Sperimentazione --> Farmaco --> Registrazione” a quello “Bisogni dei Pazienti --> Quesito di Ricerca --> Sperimentazione --> Risposta”. In definitiva, il problema del finanziamento (pubblico e/o privato) dovrebbe porsi solo dopo avere definito l’agenda della ricerca in relazione ai bisogni dei pazienti e della sanità pubblica!
- Integrità della ricerca. I comitati etici pongono grande enfasi nella valutazione di alcuni aspetti etici dei protocolli di studio: uso del placebo, consenso informato, confidenzialità dei dati. Viceversa, prestano poca attenzione agli aspetti dell’etica della pubblicazione e più in generale ai fattori che condizionano l’integrità della ricerca. Oggi la comunità scientifica internazionale - in particolare attraverso l’International Committee of Journal Medical Editors (ICJME) - richiede quattro “garanzie” ai ricercatori: la dichiarazione sulla proprietà dei dati che - sia nella ricerca indipendente, sia in quella sponsorizzata - appartengono ai ricercatori; la registrazione della sperimentazione in un registro pubblico; la disclosure sui conflitti di interesse, il cui format è stato recentemente rivisto dall’ICJME; i criteri per la definizione dell’authorship. Su questi aspetti, trattati anche da Mario Cazzola - editor in chief di Haematologica - i comitati etici italiani sono ancora all’età della pietra!
- Trasferimento della ricerca alla pratica. Parafrasando il titolo di un editoriale “Too much research, too little implementation”, il grado con cui le nuove evidenze vengono trasferite alla pratica clinica e alle organizzazioni sanitarie è assolutamente inadeguato. In particolare, accanto al mancato utilizzo di interventi sanitari efficaci si assiste allo spreco di risorse per l’uso di interventi inefficaci o addirittura dannosi per i pazienti. Pertanto, è indispensabile che la ricerca no-profit prenda per mano, oltre alla ricerca translazionale, soprattuto la ricerca sui servizi sanitari che ha due obiettivi principali: verificare se gli interventi di documentata efficacia vengono utilizzati appropriatamente nella pratica clinica; confermare se gli interventi di documentata efficacy (nei trial) sono efficaci anche nel mondo reale (effectiveness). Il primo obiettivo richiede la valutazione dell’appropriatezza dei processi con studi di clinical audit, il secondo trial pragmatici (fase IV) e outcome research.
- Prossima edizione. La FADOI ha aperto un dibattito fondamentale per il futuro della ricerca italiana. Speriamo che ci riprovi nel 2011... magari con il titolo “La ricerca indipendente in Italia: non solo farmaci”.